Tumore prostatico clinicamente localizzato: cosa fare?
Oggi il tumore prostatico è il tumore maschile più comune in tutto il mondo. L’incidenza di questa malattia è aumentata dalla fine degli anni ’80 in avanti, riflettendo i costanti miglioramenti nella diagnosi a partire dalla rivoluzionaria introduzione del PSA, passando per le nuove tecniche di biopsia e di diagnosi per immagini e più recentemente, per lo sviluppo di nuovi marcatori urinari come il PCA3. Se da un lato la maggior precocità nella diagnosi ha permesso di individuare sempre più spesso tumori prostatici localizzati, clinicamente non palpabili e, pertanto, altamente guaribili,dall’altro, questi programmi di prevenzione hanno consolidato una tendenza al “sovratrattamento”. Studi autoptici condotti su pazienti deceduti per cause diverse da tumore hanno evidenziato la presenza di un cancro prostatico nel 60-70% dei casi, pertanto definito “tumore indolente”, suggerendo come molti pazienti affetti da cancro prostatico localizzato possano effettivamente non trarre benefici da un trattamento immediato. Il compito del medico non è più soltanto quello di fare diagnosi di tumore prostatico ma è anche e soprattutto quello di individuare quali pazienti debbano essere trattati e in che modo. Quali sono i casi in cui un paziente può evitare un trattamento oppure quando questi va decisamente orientato verso una determinata procedura con possibili complicanze? Due sono gli aspetti cruciali che devono essere presi in considerazione contemporaneamente:
• Valutazione del paziente (aspettativa di vita e comorbidità): l’aspettativa di vita, piuttosto che l’età biologica, è un parametro molto importante. Le comorbidità e il performance status possono influenzare l’aspettativa di vita ma anche influenzare il recupero dopo eventi avversi che possono manifestarsi dopo un particolare trattamento. Inoltre, il paziente va informato estesamente sulla propria malattia, sulle diverse opzioni di trattamento e sulle relative complicanze.
• Determinazione del rischio, cioè, la possibilità di distinguere il paziente a rischio di morte come diretta conseguenza del tumore da quello più probabilmente a rischio di morire per altre cause.